VERDETO – 19 GIUGNO 2022
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L’anno sociale della Associazione si è concluso oggi con un programma molto ricco e coinvolgente: la testimonianza spontanea di Giulia, prossima alle nozze, la mostra dei due progetti fotografici che le ragazze del Gruppo Kalòs hanno condotto con la fotoreporter Valentina Tamborra (“Parlami di lei” e “Parlami di te”, con immagini e testo), e infine la performance di Paola T, che con arguzia, ironia e capacità mimetica ha rappresentato il Presidente in azione.
La testimonianza di Giulia, riportata integralmente di seguito con la sua approvazione, ha stimolato la discussione da parte delle giovani e dei loro genitori su dieci temi identificati in ordine d’esposizione; ne viene riportata una breve sintesi.
Io sono Giulia, ho 30 anni, abito a Magenta e ho sofferto di anoressia metale di tipo restrittivo.
Se guardo indietro al passato, vedo una ragazza di sedici anni, con tante insicurezze, paure e poca autostima. Una ragazza con tante fragilità, impaurita e con poca voglia di lottare per raggiungere i suoi obiettivi.
La mia storia ha inizio poco prima dell’estate del 2008 quando, mio fratello Gabriele mi chiese di essere testimone alle sue nozze. Ero emozionata, ma allo stesso tempo il mio unico pensiero era quello di poter essere perfetta e adatta per quel giorno speciale. Così decisi immediatamente di “mettermi a dieta” e fare attività sportiva perché il mio corpo, secondo la mia mente, non era adeguato. Iniziai con il limitare le porzioni a pranzo e a cena, a non mangiare più dolci, pasta e pane, senza che i miei genitori se ne accorgessero. Nascondevo il cibo, bevevo tanta acqua durante i pasti per riempirmi la pancia, lo tenevo in bocca per poi sputarlo di nascosto in un fazzoletto e così via.
Ero sempre più convinta che quello che stavo facendo era giusto, anche se fisicamente il mio corpo iniziava a manifestare i primi sintomi legati al disturbo alimentare restrittivo. Avvertivo stanchezza, debolezza, freddo nelle ossa (nonostante ci fossero 30 gradi nel periodo estivo), poca voglia nel fare le cose, anche quelle più banali come alzarsi dal letto, fare una passeggiata o chiacchierare con un’amica. La mia mente era offuscata da un unico pensiero: il controllo ossessivo di quello che mangiavo, come, in che quantità e la dose di calorie che ogni alimento potesse contenere. La mia mente vedeva numeri, solo numeri… il resto non contava nulla. Per non parlare della bilancia, la mia fedele alleata in quei tempi.
Mi pesavo continuamente, e se solo compariva qualche grammo in più, vivevo una tragedia. L’umore della mia giornata poteva cambiare da un momento all’altro perché dipendeva quasi esclusivamente da un numero. Tutto ciò mi rendeva assente, amorfa, distante dal mondo esterno. Vivevo nel mio mondo interiore, ossessionata da questa voce continua, pesante, irruente che mi sussurrava: “Giulia non distrarti, guarda quello che stai mangiando…è troppo! Guardati allo specchio, non vedi come sei grassa? Smettila di mangiare! Quella pancia così gonfia sai perché è così? Perché non sai controllarti!”.
Eppure, nonostante fossi in una bolla ovattata, era aumentata la mia determinazione nel far bene tutto, a partire dalla scuola. Frequentavo il liceo socio-psico-pedagogico e quegli anni erano fondamentali per il conseguimento del diploma. I docenti, a conoscenza della mia condizione, erano increduli per il mio rendimento scolastico: eseguivo i compiti alla perfezione, nelle interrogazioni rispondevo ad ogni domanda in modo completo, ero sempre ordinata e i miei compagni addirittura mi chiedevano gli appunti perché ritenevano fossero perfetti. Questo mi appagava, mi faceva sentire “in ordine” con me stessa.
Ricordo ancora che quando uscivo da scuola, a Novara (perché il liceo che ho frequentato non c’era a Magenta), prima di prendere il treno facevo tappa in farmacia per comprare dei lassativi con i soldi che mia mamma mi dava per comprare il pranzo. Ero infatti convinta che mi aiutassero ad espellere quel poco che assumevo durante il giorno. In quel periodo scuolastico la mia alimentazione-tipo era costituita da: mela, tè al limone (con zucchero perché così mi dava energia) e uno yogurt. Insostenibile con i ritmi che avevo.
Sempre in quel periodo, avevo conosciuto un ragazzo del quale mi innamorai. Benché fosse un ragazzo dolce e sensibile, la Giulia di quel momento non era tuttavia in grado di sostenere una relazione a causa della sua condizione fisica ma soprattutto mentale. Non riuscivo a cogliere la bellezza dell’esperienza emozionante della prima cotta liceale, in quanto la mia mente era profondamente condizionata dai miei pensieri negativi e dall’unica ossessione: il mio corpo. Non mi piacevo, detestavo la mia immagine riflessa, i miei pregi erano diventati difetti, e anche agli occhi di questo ragazzo ero diventata insignificante.
Non riuscivo a rendermi conto che quella non ero io… Ero convinta che fossero gli altri a vedere una Giulia diversa. Credevo di riuscire a gestire tutto da sola, di avere la situazione sotto controllo.
Soffrivo in silenzio, non volevo dimostrare che avessi davvero bisogno di qualcuno; non volevo che la mia famiglia stesse male per causa mia. Però allo stesso tempo stavo raggiungendo il mio obiettivo e non volevo perdere l’occasione di conformarmi all’immagine magra che mi ero costruita.
Solo un gesto mi fece capire, invece, che la situazione era diventata insostenibile e che avevo davvero bisogno di qualcuno che mi supportasse e mi affiancasse in quel momento terribile.
Fu il pianto di mio nonno Gerardo: un pianto disperato nel vedere la sua Giulietta (così mi chiamava) tanto fragile e triste! Quello fu il momento chiave che fece accendere la lampadina interiore: “Forse ho bisogno veramente di qualcuno che mi aiuti perché da sola non ce la posso fare”.
Da quel momento iniziarono vari incontri presso le strutture di paese, gli ospedali, tutti con esito negativo da parte mia: non mi piaceva l’approccio, il poco tatto dei medici e la superficialità con cui veniva affrontato il tema dei disturbi alimentari: non mi sentivo capita.
La fortuna è arrivata quando, grazie ad alcuni amici di famiglia, incontrai colui che letteralmente diede un volto nuovo alla mia vita, a Giulia. Un uomo e un medico di grande valore, il dottor Maurizio Bosio.
Ricordo ancora il primo incontro nello studio di Magenta: io ero impaurita, mi sentivo persa ma desiderosa di conoscere chi mi avrebbe davvero aiutata. E così è stato.
Abbiamo iniziato un vero e proprio percorso terapeutico affrontando diversi temi e lavorando in principal modo su quelli che erano gli aspetti dolenti della mia personalità: l’ansia (l’elemento chiave del mio disturbo), la poca autostima e il perfezionismo. Il lavoro è stato intenso, a tratti non facile.
Mi accompagnava ai colloqui terapeutici quasi sempre mia mamma Paola: una donna meravigliosa.
So in cuor mio di averle provocato tanto dolore e tanta sofferenza; lei mi è sempre stata accanto, in ogni momento e ha partecipato agli incontri dedicati ai genitori della Associazione Eumenidi.
Mio papà Osvaldo non ha invece mai accettato il mio disturbo; spesso evitava di affrontare le difficoltà perché gli provocavano sofferenza, ma nonostante ciò anche lui mi è sempre stato accanto.
Il dialogo terapeutico con il dottor Bosio mi ha permesso di lavorare molto su me stessa, di conoscermi meglio, tutto in funzione di una crescita personale. Mi sono sentita a mio agio e tranquilla.
Si è creata fin da subito una situazione di rispetto, fiducia e conoscenza reciproca.
Un percorso articolato che, pur con lunghe interruzioni, continua ancora oggi. Nel corso di circa quindici anni, fra l’altro, ho accettato la proposta del dottor Bosio di entrare a far parte all’associazione Eumenidi da lui fondata, insieme a un gruppo di madri e di ex-pazienti nel lontano 2007, e di condividere il progetto Kalòs, che è fra i tre progetti dell’Associazione quello specificamente destinato alle Pazienti, centrato su esperienze culturali, creative e concrete di bellezza di varia forma che si rivelano uno strumento terapeutico.
Ho avuto modo di conoscere tante ragazze che come me stavano vivendo o avevano vissuto un disturbo alimentare. Insieme abbiamo condiviso storie, racconti, esperienze e tanti momenti di ascolto reciproco.
Le esperienze di bellezza condivisa ci hanno permesso di riflettere sul vero significato del termine: la bellezza nell’osservare, la bellezza di fotografare, la bellezza nei movimenti, la bellezza nel sentirsi “vivo”.
Un bagaglio di esperienze ben custodito che ancora oggi conservo e proteggo.
Ed è proprio grazie al percorso terapeutico e al progetto Kalòs che ho acquisito sempre di più la vera conoscenza di me stessa: Giulia con la sua determinazione e con la sua crescita personale ha raggiunto, anno dopo anno, gli obiettivi che si era prefissata: la laurea, il master, le esperienze lavorative gratificanti e formative. Non è stato, però, un percorso facile, anzi.
Proprio negli anni dell’Università, verso la fine del percorso e ad un anno dalla prima laurea, un imprevisto stravolse tutto e rischiò di ricacciarmi nel disturbo. Infatti un problema di salute mi costrinse a restare bloccata con stampelle e carrozzina per quasi nove mesi, in previsione di un intervento chirurgico da affrontare. Vi chiederete: com’è stato possibile? Così, improvvisamente? Sì, proprio così. Iniziai ad avere forti dolori alla gamba destra con conseguente cedimento del ginocchio senza cause apparenti.
Dopo diversi controlli ortopedici e numerosi esami specifici, mi diagnosticarono un osteo-fibroma osteoide alla tibia destra, da operare. Per un attimo il mondo si fermò. Non riuscivo a metabolizzare il fatto che stesse accadendo tutto ciò proprio a me, che avevo affrontato un periodo tremendo a causa dei disturbi alimentari… Eppure la vita mi aveva messo alla prova un’altra volta.
Sicuramente la salute era prioritaria, ma anche la conclusione dell’università e quindi la laurea erano per me fondamentali: rappresentavano un altro obiettivo da raggiungere.
Non mollai. Affrontai tutte le difficoltà, con alti e bassi, ma tesa verso la realizzazione del mio obiettivo.
Ricordo ancora, a seguito dell’operazione (nel settembre del 2014), i mesi dedicati alla indispensabile fisioterapia e al recupero fisico e mentale. Dissi questa frase all’ortopedico: “Dottore, io voglio rimettermi il prima possibile perché devo laurearmi e il mio sogno è quello di farlo con indosso un paio di scarpe con il tacco rosse”. Lui sorrise e mi disse: “Giulia, dipende tutto da te. Se vuoi, puoi”.
E così il 26 marzo del 2015 mi laureai in Relazioni Pubbliche e Comunicazione d’impresa all’Università IULM di Milano con un bel paio di tacchi rossi.
Spesso riguardo le foto e cerco di rivivere quei momenti e in cuor mio so di aver realizzato tutto con l’impegno personale, con le mie forze e con la determinazione: dimostrai a me stessa che nella vita, nonostante i numerosi imprevisti, se ci impegnamo i nostri sforzi e i nostri sacrifici vengono ripagati dal successo. In quell periodo tutt’altro che semplice la mente ha giocato un ruolo fondamentale: il segreto è quello di alimentarla con pensieri positivi e di credere sempre di potercela fare.
Questo è uno dei tanti insegnamenti che mi diede anche Federica, una ragazza straordinaria che conobbi durante il periodo del ricovero in ospedale perché eravamo compagne di stanza.
Nei suoi 17 anni di vita ne aveva già passate tante. Era stata ricoverata per una recidiva di un osteosarcoma maligno al femore. Era sempre sorridente, nonostante stesse vivendo l’ennesimo ricovero, l’ennesima brutta notizia. Io ero spaventata, avevo paura di quello che avrei dovuto affrontare, eppure guardavo lei e mi dicevo: “Giulia impara. Lei a soli 17 anni sta affrontando l’ennesimo intervento, e sorride. Tu invece sei triste e pensi che le cose siano sempre sbagliate.”
Mi ricorderò sempre questa scena: durante il giro mattutino di controllo, ogni volta che i medici entravano nella nostra stanza e si fermavano prima da me, nel primo letto, io rispondevo sempre in modo “tragico” alla domanda come stessi. Quando passavano da Federica la sua risposta era sempre: “Tutto bene grazie”.
Ecco, nella sua risposta “tutto bene grazie” si racchiudevano tanti pensieri, tanti insegnamenti di vita.
Quella esclamazione è stata per me motivo di riflessione, anche perché da quell’incontro è nata un’amicizia incredibilmente bella. Abbiamo condiviso momenti belli, emozionanti, ma anche brutti, come il constatare che la sua malattia che non si fermava, ma viaggiava come un treno, senza tregua. Nonostante la malattia l’abbia logorata, con il suo carattere forte ha sempre voluto affrontarla.
Purtroppo Federica il 25 settembre del 2020 è volata in cielo, a soli 23 anni.
La sua morte è stata straziante per me: fino all’ultimo ha dimostrato di essere una guerriera, fino all’ultimo è stata grande, e una grande amica da cui ho imparato davvero molto.
Oggi la ricordo con il sorriso, anche se ammetto che qualche lacrima a volte scappa, assieme a tanti pensieri sul senso della vita, della morte, su Dio e sul suo silenzio.
Ne parlo spesso con Simone, il mio fidanzato nonché mio futuro marito.
Lui è la persona che mi ama per quella che sono. Mi fa sentire speciale, preziosa, bella. Mi ascolta con attenzione e mi regala gesti inaspettati. È premuroso, paziente e mai scontato.
Mi ha rubato il cuore tre anni fa, con il suo romanticismo e la sua costanza nel conquistarmi giorno dopo giorno. Abbiamo vissuto tanti momenti emozionanti: dalla prima vacanza insieme all’estero ad una convivenza arrivata in piena pandemia. Non avrei mai pensato di riuscire a gestire una convivenza; io che dicevo sempre che sarei rimasta a casa con mamma e papa! Eppure, ad oggi, non potevo vivere esperienza più bella. Ed è proprio da questa esperienza che l’11 luglio del 2021 arrivò la fatidica proposta di matrimonio. Io e Simone ci sposeremo il 10 settembre del 2022 e siamo tanto felici.
Felici perché insieme abbiamo raggiunto il nostro equilibrio, sia personale che in termini di coppia.
Ci compensiamo, sappiamo ascoltarci, litighiamo pochissimo, ma soprattutto ci amiamo per quelli che siamo. Condividiamo tante passioni, in particolar modo una: il soccorso e l’amore per il prossimo.
Infatti da quasi dodici anni sono soccorritrice e da tre anni capo equipaggio di Croce Bianca Magenta, mentre Simone da cinque anni è vigile del fuoco.
Una passione che ci ha fin da subito uniti: il volontariato, quello puro, vero, sentito.
Per me Croce Bianca è diventata letteralmente una “seconda casa”, una “seconda famiglia”.
Le esperienze vissute mi hanno permesso di entrare in relazione con il prossimo in un contesto che spesso ha dell’incredibile. Eppure ogni giorno imparo tanto: dai pazienti, dai parenti, dai medici. Potrei definirla una vera e propria scuola di vita.
Ricordo ancora quando il dottor Bosio mi propose di entrare a far parte di una realtà associativa per praticare il volontariato, perché mi avrebbe aiutato ad affrontare creativamente i tratti ansiosi di personalità. Lo ringrazio perché ciò si è realizzato e oggi non riuscirei a farne a meno.
Mi ha permesso di riflettere molto sull’importanza della vita e su quanto sia indispensabile viverne a pieno ogni momento, perché è una e irripetibile.
Il primo tema discusso, suggerito dalla testimonianza, è la situazione psicologico-esistenziale dell’adolescente nel suo contesto relazionale-sociale e le ragioni della bassa autostima – concetto, questo, vago, che richiede una definizione coerente con il suo significato da parte di chi lo enuncia.
A partire dagli interventi delle Pazienti che evidenziano come l’autostima dipenda in buona parte dall’immagine di sé, soprattutto corporea, riflessa dalla società che frequentano, si sono analizzate le modalità con le quali la società stessa influenza i giovani. Emergono in particolare l’idolatria della bellezza corporea come strumento seduttivo di conquista di un ruolo sociale, il ruolo del successo nello studio e nelle relazioni affettive per la percezione del proprio valore, il narcisismo primario inconscio dei genitori che rinforza negativamente la bassa autostima dei figli che vengono percepiti come “perfetti” o sono oggetto di aspettative non realistiche e di investimenti, il ruolo della scuola.
La tematica dell’autostima delle figlie (a lungo trattata in uno specifico progetto Kalòs) stimola i genitori a evidenziare i limiti nelle modalità e nella comunicazione del modello educativo da loro applicato, influenzato dal modello acquisito nella famiglia d’origine. Vengono anche sottolineati gli errori e i comportamenti virtuosi degli insegnanti in qualità di educatori. Si discute anche la definizione di cultura: il messaggio ribadito con forza e costanza nell’Associazione è la necessità, da parte del giovane, di usare gli strumenti di cultura a disposizione per una crescita personale, spostando le motivazioni dal conseguimento di gratificazioni provenienti dai risultati (voti) alla consapevolezza della bellezza e bontà della conoscenza in sé, e della sua proprietà di essere “cibo buono” per l’interiorità e per l’autoeducazione; ciò consente di uscire dal narcisismo per aprirsi alla complessità difficile e bella della vita, realizzandosi.
Sono stati illustrati i meccanismi che mantengono i giovani in una condizione di insicurezza personale e di inferiorità, chiusi in una dimensione puramente spaziale orizzontale, ed è stato sottolineato il ruolo del padre (e in sua assenza del terapeuta) quale fattore di rottura del legame materno-filiale che alimenta l’insicurezza, al fine di affidarlo alla dimensione temporale e verticale che abitua a progettare il proprio futuro, ad affrontare l’imprevisto, a porsi domande di senso.
Il secondo tema riguarda i fattori che scatenano i disturbi del comportamento alimentare (DCA).
L’argomento esige che si esca dai luoghi comuni e che si affrontino in modo fenomenologico i vissuti delle Pazienti, immerse in un’atmosfera che non favorisce la loro crescita equilibrata ed esalta i tratti di personalità ansioso-depressivi-impulsivi. I fattori scatenanti da loro riconosciuti sono di natura affettivo-emotiva familiare e relazionale con i pari, traumatica (bullismo, affettività ferita, abbandoni, abusi emotivi se non fisici), estetica (il desiderio di raggiungere una forma corporea immaginata, spesso evocata mimeticamente da corpi altrui esibiti sui canali dei media).
Si è discusso il ruolo centrale del desiderio, della ricerca di gratificazioni, dell’invidia mimetica.
Si è accennato al funzionamento della mente che, privata di apporto energetico, sviluppa un “pensiero anoressico” anche in soggetti che non hanno fattori predisponenti il DCA.
Il terzo tema riguarda le convinzioni indotte dai DCA e le conseguenze sul piano psico-fisico ed esistenziale-affettivo. E’ emerso con chiarezza che le convinzioni errate (e pericolose) si formano perché non si ascoltano gli altri – altri intesi come figure autorevoli ed esempi di “vita buona”. Quanto più l’io si chiude in un “cerchio” protettivo, quanto più esclude gli altri, tanto più aumentano l’influsso di convinzioni patologiche, la diffidenza verso gli altri, la strutturazione di resistenze al cambiamento. L’orientamento del pensiero razionale si volge a sostenere il DCA, aumentando la tendenza dissociativa della mente. Tutto ciò ha un corrispettivo neurobiologico, osservabile in tempo reale con le tecniche di neuroimaging.
Il quarto tema di discussione sono i fattori e gli avvenimenti che favoriscono l’acquisizione di una maggior consapevolezza dei DCA e le richieste di aiuto. A seconda delle esperienze individuali i fattori variano da incontri con persone significative degne di fiducia – in particolare il terapeuta -, alla constatazione di non essere più in grado di realizzare esperienze ritenute importanti, al timore della ospedalizzazione, a eventi imprevedibili. Il dolore indotto negli altri, i genitori in particolare, è stato discusso anche nei suoi aspetti potenzialmente lesivi della libertà nel percorso della cura: la Paziente deve voler guarire per se stessa, non per i genitori (o per il terapeuta). Talora la Paziente non ha alcuna consapevolezza della sua condizione nel disturbo: diventa fondamentale la consapevolezza della gravità della situazione nei genitori, i quali impongono alla figlia un percorso di cura il prima possibile.
Il quinto tema riguarda i fattori che favoriscono la relazione paziente-terapeuta e il percorso nella cura.
Il Presidente, nominato dalla testimonianza, ha chiarito sinteticamente che il terapeuta deve necessariamente possedere conoscenze e competenze professionali e umane, ma che dovrebbe essere consapevole del dono e della grazia che ha ricevuti nella relazione di cura. Essi prendono forma attraverso il suo intervento: a sua volta egli trasmette alla paziente (Giulia, in questo caso) una ferita, perché le toglie la falsa sicurezza dell’onnipotenza, e un dono, che è la prospettiva della vera guarigione: il cambiamento cioè si attua attraverso la sofferenza accettata e l’acquisizione della consapevolezza che il DCA diventa occasione di crescita, sostenuta da motivazioni orientate alla guarigione, la quale terminologicamente e praticamente non coincide con l’outcome della letteratura. Il dono ricevuto è un evento transpersonale, privo di contenuto egoico e quindi capace di sviluppare una relazione che esclude la dipendenza.
Il sesto tema tocca le esperienze di bellezza condivisa (Progetto Kalòs) e le modalità con le quali la bellezza si rivela terapeutica per la persona. Le Pazienti evidenziano come le esperienze vissute in gruppo siano “esterne” e diverse da quelle vissute nella quotidianità privata, molto più ricche e incisive. La percezione della bellezza è individuale, ciononostante è bello sentirsi capiti a fronte di gusti differenti. La bellezza apre la mente e il cuore. Essa ha la proprietà di risolvere il conflitto fra sentire e pensare, perché mette la persona nella condizione di sentire pensando e di pensare sentendo, secondo la definizione di Schiller.
La fotografia come mezzo espressivo, appresa ed esercitata in gruppo dalle Pazienti, seleziona le forme belle, ma rende bello anche ciò che “bello” non è o non è percepito tale, definendone il carattere specifico; ciò vale anche per l’autoritratto, come ha evidenziato il progetto “Parlami di te”.
Il settimo tema discute il ruolo degli avvenimenti traumatici e luttuosi che si verificano durante il percorso di cura. Solitamente essi provocano o favoriscono il riacutizzarsi del DCA come modalità (sbagliata) di controllo emotivo, ma se la qualità del lavoro effettuato è buona e ha indotto un cambiamento stabile, la persona accetta e affronta l’imprevisto, per quanto traumatico esso sia. Questa è la strada per sviluppare la resilienza – la capacità di resistere elasticamente alle tensioni, senza spezzarsi. E’ quanto accaduto a Giulia.
L’ottavo tema riguarda l’esperienza angosciosa della malattia e della morte altrui, anche in considerazione del fatto che “la tua morte è la mia morte”.
Questa esperienza è così coinvolgente per il bambino, per l’adolescente, che egli può decidere di non crescere, usando – non raramente – la restrizione alimentare come mezzo per cercare di realizzare lo scopo.
Un dramma nel dramma. Qualcuno resta annichilito dalla sofferenza, bloccato dalle emozioni fortemente negative che esperimenta. Qualcun altro le ignora volutamente, stordendosi con varie analgesie a forme di anestesia. Eppure la sofferenza è la strada per acquisire consapevolezza, come recita il motto delle Eumenidi di Eschilo: pazei mazos, la conoscenza tramite la sofferenza.
Di solito la domanda sul significato della sofferenza tocca le persone più sensibili; per il cristiano, come Giulia, si aggiunge la domanda sul “silenzio” di Dio, apparentemente incomprensibile.
Il termine limitato di tempo dedicato alla discussione non ha comunque trascurato l’argomento della libertà che Dio ha donato all’uomo come bene supremo, rendendolo con-creatore e co-redentore del mondo, e del mistero tenebroso della sofferenza, condivisa dal Figlio di Dio. Nella sofferenza, nella morte della cara amica di Giulia, Gesù Cristo era presente, era sulla croce con lei, in silenzio: Federica non è morta sola, e ora, nella luce della fede, vive nella pienezza della gioia.
Il nono tema richiama l’amore e i suoi effetti sulla persona, vista “così com’è” dall’amato.
Essere accettati nella consapevolezza dei propri limiti, fisici, psicologici e spirituali, sarebbe una cura formidabile per i DCA qualora la persona che ne è affetta fosse preparata alla relazione, ma ciò è raro, perché la caratteristica del disturbo è la chiusura presuntivamente protettiva nel proprio io (la corazza di cui parlano le Pazienti). Infatti, come scrisse magistralmente una quattordicenne:
“Uscire dal cerchio e finalmente vivere! / Ma io non posso, sono grassa, / grassa e inconsistente: / il mio nulla dentro / mi fa vivere con le emozioni in bocca.”
Il decimo tema tocca l’importanza formativa e terapeutica del volontariato soprattutto per le persone ansiose. L’unico modo efficace per superare l’ipocondria, il terrore per la malattia e il sangue è farne una esperienza diretta o indiretta, senza sfuggirli. Tutti i Pazienti che hanno accolto l’invito del terapeuta a diventare volontari attivi nelle varie Croci ne hanno tratto un grande beneficio. Giulia lo testimonia. Occuparsi dei mali altrui significa uscire dalle ristrettezze asfissianti dell’io per oggettivare, per incontrare l’altro. A sua volta, l’altro, il sofferente, diventa strumento di guarigione dalle fobie per il volontario che ne è affetto. La salvezza – la guarigione – avviene attraverso la relazione.
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Molto bello e molto vero tutto, sono un ragazzo, che ha avuto disturbi in adolescenza di anoressia e poi bulimia, mi rispecchio nel racconto di Giulia, nella sofferenza, nella scelta iniziale, dal volere provare a migliorarsi, per un evento come nel suo caso o per un obbiettivo; io volevo giocare meglio a calcio. Cominciai autonomamente restringendo anche io le porzioni dei pasti, essendo anche ansioso e dunque ossessionandomi di non sbagliare.. l’atteggiamento che adottavo, era austero con me stesso, criticandomi se avessi esagerato, e dicendo puntualmente quanto fossi sovrappeso, producendo una percezione della realtà parallela, ossessiva, imprigionante, DISTORTA.
La famiglia è il luogo da cui partono esempi di comportamenti buoni e talvolta meno, mia sorella prima di me, all’epoca aveva 17 anni ed io 13, cominciò a dimagrire.. e a cercare di nascondere il suo disturbo legato alla bulimia, so essersi portata nel tempo degli strascichi ma grazie a Dio ne è uscita. in qualche modo ho emulato forse inconsciamente, un atteggiamento insano, e fattolo mio, personalizzandolo. Presumendo di poter controllare me stesso e il buon umore attraverso un’ossessione riguardo il cibo.
Mio padre e mia madre si cominciarono a preoccupare solo quando visivamente riscontrarono un evidente cambiamento, ero dimagrito molto, e per qualche tempo quasi un anno ero riuscito a nascondere il modo in cui mi alimentavo.
Capirono che stava accadendo qualcosa di strano e celato, mia madre dispiaciuta , mio padre anche ma a volte fu rude nei miei confronti, anche mortificandomi, non è senza dubbio l’atteggiamento più consono, ma so che non hanno colpa e all’ epoca non possedevano nemmeno gli strumenti adatti per capire cosa fare. In loro generai sofferenza, pensavo di gestire le cose da me, essere forte per questo, e il fatto che stesse prendendo piede una approccio alimentare patologico era percezione lontana da me se pur molto reale.
Così cominciai un percorso terapeutico, con un professionista che mi aiutò a piccoli passi a svincolarmi da queste catene invisibili e nel tempo, se pur affrontando fatiche, cadute e svariate difficoltà, a raggiungere un equilibrio e un amor proprio sincero non basati su ideali di gomma ma nella verità.
Sono consapevole che le relazioni salvano e ci aiutano a scoprire noi stessi, il nostro potenziale e a svilupparlo.
Penso che ognuno di noi possa sperimentarlo, aprendosi alla vita con coraggio, ed è molto bella l’esperienza di Giulia, senz’ altro un esempio di come si possa sentire e vedere la vita degli altri e la nostra.. da più vicino, nella verità
Ogni storia ha un valore immenso, ognuno di noi è unico, la sofferenza per quanto in alcuni momenti o periodi della nostra vita possa sembrare invalicabile, è superabile se vista nell’amore vero.
Essere umili, e chiedere aiuto è fondamentale ed è già una scelta d’amore, interfacciandosi con un terapeuta e credendo in noi stessi
La lettera di Tommaso è un dono che questo giovane sconosciuto fa in primo luogo a Giulia, e a tutti noi della Associazione. Le sue parole rivelano la complessità e difficoltà del percorso che ha effettuato, e indicano la condizione perché si verifichi un esito favorevole accompagnato dalla crescita personale: la verità nell’amore. Un amore non superficiale, come specifica Tommaso, un amore sano verso se stessi, forgiato dalla sofferenza accettata e accompagnato dalla consapevolezza della propria condizione delle conseguenze che il disturbo esercita sui famigliari. Un amore che dona senso a un disturbo non razionalmente comprensibile, trasformandolo in occasione di crescita.
Il Presidente