DESIDERIO E IDENTITA’ PERSONALE – VERDETO 11 SETTEMBRE 2022
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Là dov’è il tuo tesoro, lì sarà il tuo cuore. Matteo, 6:21
Cari Soci, apriamo il sedicesimo anno sociale trattando l’orientamento dei desideri e le conseguenze che ne derivano per l’autenticità o inautenticità dell’identità personale, per la salute o per la malattia, e in particolare per i disturbi del comportamento alimentare (DCA).
Si tratta di un argomento molto complesso che non è possibile trattare in modo esaustivo, ma riflettendo sulla nostra esperienza personale possiamo comprenderne meglio le implicazioni sul piano clinico e preventivo.
Diamo subito voce all’espressione scritta, libera e anonima, dei nostri desideri, rispondendo ad alcune domande:
– Qual è il mio principale desiderio?
– Quando realizzo un desiderio che emozione provo?
– Quando provo un desiderio mi chiedo se sia giusto o sbagliato per il mio benessere (SI’/NO)?
– Ritengo che i miei desideri abbiano effetti sulla mia vita?
Alla prima domanda le risposte dei presenti sono state: armonia familiare, salute, autonomia e realizzazione nell’esistenza, sistemazione per se stessi e i figli, pace, verità.
Alla seconda, sulle emozioni, le risposte sono state contrastanti: gioia, soddisfazione, appagamento, ma anche incertezza sulla tipologia delle emozioni, paura e pienezza, insoddisfazione continua, sensazione di fermento in azione, emozioni effimere.
Alla terza domanda solo due persone hanno risposto che non si chiedono se il desiderio sia giusto o sbagliato, ma ben sei che talora se lo chiedono e talora no. Gli altri hanno risposto di sì.
Alla quarta domanda tutti hanno risposto che sono consapevoli che i loro desideri hanno effetti sulla loro vita, e che gli effetti possono essere sia positivi, sia negativi, tanto da provarne ansia. Alcuni ritengono che i cambiamenti che seguono l’attualizzazione dei desideri sono importanti.
Chiariamo innanzitutto che il desiderio è un atto mentale che si esplica attraverso l’attivazione di uno specifico gruppo di neuroni cerebrali raccolti nel piccolo ma “potentissimo” nucleo accumbens: attorno alla zona centrale deputata all’evocazione del desiderio c’è una zona esterna che orienta verso varie forme di piacere. Esistono delle connessioni sinaptiche, cioè delle strade preferenziali di attivazione neuronale, fra il nucleo accumbens che rilascia la dopamina e altre aree, collegate al circuito della ricompensa edonica (la soddisfazione del piacere): un processo molto complesso di attivazione di aree del cervello e di rilascio di sostanze chimiche, in particolare la dopamina e gli oppioidi, costituisce la base neurobiologica del desiderio e del piacere la cui soddisfazione costituisce sia lo stimolo per la sopravvivenza, sia il fenomeno della dipendenza.
Tutto ciò che desideriamo, sentiamo, intuiamo, ricordiamo, pensiamo e facciamo passa necessariamente attraverso l’attivazione dei neuroni cerebrali, ma non si riduce (né tantomeno noi ci riduciamo) ad essi e alle loro funzioni, cosa, questa, sostenuta da medici riduzionisti.
Il desiderio è un atto mentale conscio o inconscio; svolge un ruolo fondamentale per la trasmissione e il mantenimento della vita (attraverso il desiderio sessuale), ed è così forte da condizionare scelte di vita, riferimenti sociali e affettivi, comportamenti e destini.
E’ infatti esperienza comune, ma per qualcuno drammatica, che quando si accende il desiderio la forza della ragione e la legge morale sembrano spegnersi: il desiderio anzi si rafforza con la legge, con la proibizione, e sopravviene la volontà di trasgredire. Ciò trova una esplicita conferma esperienziale in san Paolo (Lettera ai Romani, e non solo) e nella riflessione psicanalitica. Il desiderio non è solo desiderio di un oggetto, soprattutto se desiderato da un altro che diventa il modello da imitare (desiderio mimetico): esso è anche desiderio di desiderare di trasgredire, e in tal modo esercita un’attrazione irresistibile nelle varie forme di dipendenza, rinforzato dalla proibizione, dal tabù, dall’esortazione a non attuarlo.
Noi intuiamo o sappiamo per esperienza che la qualità del desiderio incide significativamente sulla nostra vita, ma raramente superiamo il vissuto emotivo e riusciamo ad analizzare razionalmente quanto ci accade interiormente mentre desideriamo.
Siamo governati dal desiderio, tant’è vero che se il desiderio – che è in definitiva desiderio d’amore bene o male espresso – si spegne, la vita perde di sapore, e può subentrare la depressione dell’umore. D’altro canto, dopo aver intensamente desiderato e compiuto atti coerenti con il desiderio, facciamo talora l’esperienza della delusione o di un profondo senso di colpa: ci rendiamo conto improvvisamente che il desiderio ci ha ingannato, che le sue promesse erano una illusione.
Ciò accade perché rispondiamo al desiderio collegato alle pulsioni sensibili irriflesse, un forte desiderio che prevale momentaneamente, cercando realizzazione. Successivamente subentra nel soggetto morale, ma assai difficilmente un soggetto affetto da dipendenza, una valutazione riflessiva esercitata sugli esiti del desiderio, concretamente verificati o immaginati.
Noi sperimentiamo che il desiderio mal riposto succhia letteralmente le energie psico-fisiche, le storna dagli impegni della vita reale, e le incanala verso rivoli dispersivi. Si tratta di uno spreco energetico enorme. Poiché siamo soggetti morali, anche se non tutti e non sempre lo riconosciamo, la coscienza avverte le conseguenze negative del desiderio male indirizzato, del disturbo da dipendenza conclamato, e genera sensi di colpa.
Il senso di colpa è positivo solo in quanto voce interiore che segnala un errore di comportamento, ma è del tutto sbagliato in quanto mantiene dentro la dipendenza e poiché è funzionale ad essa, causa sofferenza per motivi sbagliati o sterili, non produttivi di cambiamento (il senso di colpa diminuisce l’autostima, già insufficiente, per cui la persona si disistima ancora di più e non lotta per cambiare, perde la speranza di uscire dalla dipendenza e ripete, anche per il rinforzo operato da sostanze chimiche cerebrali, il comportamento che ha generato il senso di colpa).
Il buddismo predica esplicitamente il distacco dal desiderio perché come azione mentale è un’illusione che provoca insoddisfazione se non dolore all’uomo.
Le filosofie occidentali come l’epicureismo e lo stoicismo hanno fornito indicazioni teoriche e pratiche sul controllo del desiderio, riconoscendone la pericolosità.
L’Antico e il Nuovo Testamento esprimono in modo chiaro il ruolo del desiderio in vista della salvezza. Il Decalogo elenca una serie di proibizioni di azioni che l’uomo potrebbe commettere, ma il decimo comandamento proibisce di desiderare cose e persone altrui (per comprendere la portata di tale divieto, consiglio di leggere Vedo Satana cadere come la folgore di R. Girard).
Gesù Cristo esprime verbalmente la natura del suo desiderio, di natura imitativa riguardo al Padre, e riguardo alla sua missione fra gli uomini desidera intensamente che il fuoco del Suo amore sia acceso e che il banchetto eucaristico sia condiviso con i discepoli.
Il credente può solo immaginare la scena dell’ultima Cena, influenzato dalle numerosissime interpretazioni visive offerte da pittori e scultori nell’arco di secoli.
Il processo mentale che facciamo riguardo al desiderio è quello di formarci immagini dell’oggetto o della persona desiderata: quanto corrispondono tali immagini alla realtà dell’oggetto o della persona? Quanto corrisponde l’immagine del desiderio proiettato su me stesso – riguardo alla forma del mio corpo o a qualità caratteriali – a ciò che sono nella realtà?
Spesso il desiderio ci induce a creare degli idoli (eidolon, figura, simulacro, dal greco eidos, forma, aspetto), fenomeno comunissimo fra gli adolescenti riguardo a cantanti, attori, atleti, figure cioè che incarnano un loro desiderio idealizzato.
E’ la presenza di “un altro” a risvegliare il desiderio, soprattutto in ambito affettivo, quando si desidera l’altro, ma anche che l’altro ci desideri e provi desiderio per il nostro desiderio rivolto verso di lui. Eppure nel desiderio verso l’altro incontriamo il limite della insoddisfazione che ci rende inquieti, perché “non ci basta mai”: il nostro è desiderio d’assoluto, come ben dice Agostino d’Ippona nelle Confessioni rivolgendosi a Dio, l’unico che, incontrato, è in grado di placare la nostra inquietudine (“Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”).
Ci sono anche forme patologiche di insoddisfazione dell’espressione del desiderio come il non accontentarsi mai di ciò che si possiede e il lamentarsi di non avere le capacità e possibilità per realizzare il desiderio.
In tutti i casi la parola è un tramite straordinario d’espressione del nostro desiderio, assieme all’immaginazione.
L’immaginazione generata dal desiderio, non coerente con la realtà, sistematicamente ingannevole come accade nei DCA, provoca la perdita del senso immanente: viene meno il principio di realtà, e con esso la visione d’insieme, a favore della concentrazione dell’attenzione sul particolare.
Il mondo reale fatto da persone reali, da avvenimenti persino tragici, sfuma sullo sfondo dell’esistenza perché non esercita più un impatto emotivo.
Il DCA restrittivo concentra il desiderio sulla sola magrezza, perché al desiderio corrisponde un’immagine corporea deformata che se sostenuta, diventa una alterazione (non sempre reversibile) del gruppo di neuroni dell’area parietale dove è situata l’immagine corporea interiorizzata.
Se il desiderio sostiene potentemente il comportamento restrittivo o bulimico-evacuativo, se resiste al contraddittorio della ragionevolezza e all’esperienza delle conseguenze negative sulla salute, se la coazione a ripetere il comportamento sembra insuperabile, come spegnere il desiderio e uscire dal disturbo? Come uscire dalla schiavitù autoimposta dal piacere concentrato sul cibo, e sulla paura d’ingrassare (o di crescere), per riacquistare il controllo su di sé e la libertà di vivere una vita fisicamente e psicologicamente sana?
La risposta, molto complessa e in parte ancora ignota sul piano della neurofisiologia, sta nella capacità di orientare diversamente il desiderio, con la raggiunta consapevolezza che esso può farci ammalare o al contrario contribuire alla nostra crescita personale e a provare forme di sana gioia.
Non può – né dovrebbe – essere la potenza del desiderio con le sue misteriose radici innestate nell’inconscio a farci scegliere in un senso o nell’altro, ma una scelta determinata dal nucleo vitale dell’interiorità che definisce la nostra identità personale, a sua volta influenzata dalla qualità dei desideri. Affermiamo sulla base dell’esperienza clinica che l’energia necessaria per modificare l’orientamento del desiderio proviene dal sentimento affettivo, non dalla fredda razionalità o dal timore e dall’obbedienza verso un comando autorevole esterno. Definiamo tale sentimento affettivo l’amore sano per se stessi, a scapito di ambiguità: non bisogna guarire “per la mamma o per il terapeuta”, ma per se stessi, o non è guarigione, perché la salute sussiste solo nella verità e nella libertà esperita dalla persona.
Che cos’è dunque l’identità personale?
Noi siamo ciò che siamo come sintesi attuale del passato, cioè dei comportamenti trascorsi che s’incarnano nel presente, comportamenti dei quali noi possiamo reinterpretarne il senso.
Questa possibilità fa sì che l’identità disposizionale (la nostra identità attuale, in azione) si traduca in identità narrativa: questo termine sta a significare che la nostra unicità è inscritta in una storia familiare alla quale dobbiamo il corpo, la collocazione storica, la cultura, la tradizione religiosa, la maturazione delle nostre risorse e competenze, i nostri gusti etc.
La nostra posizione attuale è il risultato storico, a partire dalla vita intrauterina, delle nostre esperienze ripensate in funzione di un senso, in vista del nostro futuro. Essa si struttura progressivamente attraverso le relazioni che intratteniamo con gli altri, a partire dalle figure parentali. La persona che noi siamo si costruisce attraverso le relazioni inter-soggettive.
L’importanza del senso si comprende quando s’incontra una patologia mentale come la schizofrenia, caratterizzata dalla perdita del senso della realtà, dell’unità del sé e del pensiero, del coordinamento dell’agire nel tempo e dell’ordine nelle priorità della vita.
D’altro canto un soggetto può essere normale dal punto di vista cognitivo, ma non in grado di deliberare razionalmente e di comportarsi secondo ciò che è bene o è male: è proprio questa capacità di giudizio e di comportamento coerente a rendere il soggetto un “soggetto morale”.
Poiché la libertà, cioè la possibilità e capacità di scegliere fra varie possibilità, è centrale per il soggetto morale, egli compie un’azione volontaria dopo averla immaginata e valutata nel suo significato con la sua coscienza, per poi rivalutarne gli esiti e il senso dopo averla compiuta.
Se è il senso a orientare le nostre scelte in modo coerente con la salute, nei DCA ciò non avviene a causa della potenza del desiderio mal riposto, dell’immagine corporea patologica interiorizzata, della forte tendenza a ripetere il comportamento patologico, sostenuto dalla progressiva riduzione della plasticità mentale (un articolo recente conferma sperimentalmente questo assunto: Initial evidence of abnormal brain plasticity in anorexia nervosa: an ultra‑high field study, Pappaianni et al.): si verifica così la perdita del senso generale, dell’orientamento verso la vita, collassata sulla preoccupazione per il cibo che verrà introdotto e per i cambiamenti fisici che indurrà.
Sappiamo che il Sé come persona autocosciente matura in un ambiente normativo rappresentato da altri soggetti, che lo riconoscono come Sé normale (Zhok). Ciò rischia di non attuarsi nel DCA, perché la chiusura dell’Io in se stesso – tipica conseguenza – lo esclude progressivamente dalla relazione normale con gli altri soggetti, aggravando la difficoltà di mantenere contatti con la realtà, inducendo il soggetto a chiudersi sempre più in se stesso.
La crisi della famiglia e dell’adulto in generale, il verificarsi di vuoti affettivi, di avvenimenti traumatici e luttuosi nella vita dei giovani, soprattutto nella prima fase dell’adolescenza, l’incontro con pari già corrotti da alcool, droghe, sessualità incosciente, oltre a fattori personologici ansioso-depressivi, può far sì che il desiderio acquisti una connotazione fortemente negativa: è desiderio di non crescere, desiderio di non soffrire, desiderio di morire.
A seconda della personalità del soggetto e delle situazioni esistenziali, il desiderio viene agito con modalità che vanno dall’evitamento delle relazioni sociali e/o della scuola, all’anoressia restrittiva, al suicidio. Altri soggetti agiscono la depressione e le frustrazioni in modo impulsivo: bulimia nervosa con fenomeni di vomito auto-indotto, sessualità non consapevole e promiscua, utilizzo di droghe o farmaci, imitazione di modelli di comportamento trasgressivo dell’adulto.
I genitori devono saper cogliere nella modificazione iniziale degli atteggiamenti e dei comportamenti dei figli – per esempio il desiderio di apparire, la seduttività, l’aggressività e l’insolenza non spiegabili, il disinteresse per la scuola, le assenze ingiustificate, la chiusura nella propria stanza e il rifiuto della scuola, fino all’Hikikomori – l’inizio o il consolidamento di una crisi che anziché essere “di passaggio” è foriera di gravi conseguenze.
L’atmosfera generale di relativismo diffuso, di rifiuto delle regole e della disciplina, di adultescenza dei genitori, nonché la sempre maggior difficoltà di collaborazione fra la famiglia e la scuola, per non parlare della Chiesa, marginalizzata, rendono molto difficili e tardivi gli interventi correttivi.
La conseguenza è l’instaurarsi nel giovane di una identità non autentica, se non francamente patologica. Il lavoro educativo e clinico è teso al recupero della autenticità, impossibile senza l’accettazione della verità su se stessi, l’intervento della affettività verso sé e verso l’altro, la ricerca della autentica libertà con la rinuncia all’egoismo onnipotente.
Forse la difficoltà maggiore del lavoro consiste nella mancanza di autenticità nelle figure di riferimento, e dall’impiego di filtri ideologici preconcetti nella cura della persona.
L’approccio dell’educatore/terapeuta non può prescindere dalla sospensione del giudizio (epoché), dall’ascolto intelligente (ermeneutico) dei segnali forniti verbalmente e agiti dal giovane, dall’amore incondizionato (cioè non influenzato dai vissuti emotivi personali e dal giudizio morale) verso di lui, dall’umiltà riguardo alle proprie possibilità e al risultato dell’intervento, pur nel massimo sforzo e sacrificio personale.
Ogni crisi adolescenziale, esito di desideri mal riposti, mette sotto analisi impietosa l’adulto, evidenziandone i limiti, ma rivelandogli anche, se ne acquista consapevolezza, che l’amore – il suo amore – può non avere limiti, che l’essere umano (suo figlio, sua figlia; il suo Paziente) è misterioso e in ultima analisi non raggiungibile perché abitato da una libertà che neppure i condizionamenti della società e le espressioni patologiche del desiderio possono abolire.
In ragione della libertà della persona che apre sempre alla speranza sulla possibilità del cambiamento, il giovane affetto da un DCA se ben guidato può recuperare consapevolezza della sua condizione e scegliere liberamente di utilizzare creativamente la sua immaginazione per mettere in atto le sue risorse: l’esito positivo è verificabile nella realtà contingente, e ciò innesca il meccanismo di recupero della autenticità dell’Io che fonda l’identità vera della persona.
Raggiungere questo risultato, qui sommariamente accennato, comprovato dal recupero della plasticità cerebrale, conferisce una forza straordinaria al soggetto, divenuto persona vera.
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